“Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende nel silenzio.”
Antoine de Saint-Exupery
I giorni trascorsi nell’Outback sono stati quelli degli interrogativi, delle introspezioni e della voglia di capire.
Il deserto ha sempre una strano effetto su di me: il silenzio, l’orizzonte piatto alla fine di una distesa infinita, la mancanza di distrazioni; questo luogo non luogo mi ha sempre regalato una pace interiore, una sensazione di autosufficienza e di appartenenza ad un posto che non è mai stato mio; la consapevolezza che l’uomo, nel suo stato primordiale, è una creatura straordinaria alimentata da un altrettanto straordinario spirito di adattamento.
Il deserto è la certezza che la vita può essere più forte di tutto, più forte di qualsiasi ostilità.
Ma nell’Outback è stato diverso: non mi sono sentita parte di quel luogo, ma solo spettatrice di passaggio di uno degli spettacoli più belli dalla Natura. Uluru non appartiene al mondo, ma solo ad una piccola Comunità per la quale questo paesaggio è stato creato dai propri antenati e che continua a proteggere, tra battaglie vinte e perse, in tutta la sua sacralità.
Mi sono sentita in dovere di camminare in silenzio, senza lasciare tracce più di qualsiasi altro posto, spegnere la macchina fotografica quando mi è stato richiesto, frenando quell’istinto compulsivo di scattare foto che rischiano di sembrare tutte uguali, ma che sono solo il vano tentativo di catturare più sfumature possibili di un paesaggio che mi piace da morire. Mi sono sentita in dovere di capire e di accettare quella chiusura e quel senso di mancata ospitalità che mi ha pervaso, facendomi carico di un senso di colpevolezza che mi riguarda solo per il fatto di appartenere ad una cultura che per troppi anni si è sentita superiore.
Ho fatto fatica a metabolizzare che non avrei dovuto cercare complicità in uno sguardo, abbandonare ogni tentativo di costruire un ponte attraverso gli occhi che mi facesse sentire gradita, cancellare l’idea di un confronto diretto con chi queste terre le abita dalla notte dei tempi: prima di arrivare, durante il volo che da Alice Springs mi avrebbe portato nel cuore del deserto, trascinandomi dietro tutta la mia ignoranza, pensavo di poter ripetere l’esperienza di entrare in contatto con le tribù locali fatta in Kenya l’anno precedente.
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Uluru
Lo si vede si da subito, già a pochi chilometri fuori dall’aeroporto, questo blocco di arenaria rossa alto 350 metri, mentre si percorre il serpente di asfalto che si snoda lungo una distesa infinita e piatta di terra brulla.
L’emozione è forte, è un sogno che si avvera. E’ come entrare in una fotografia vista un migliaio di volte.
Uluru è un catalizzatore di sguardi: quando si è fermi o ci si sposta, al tramonto e all’alba, si è tutti lì a guardalo mentre i colori mutano progressivamente nelle varie tonalità del rosso, dell’arancio e del viola, mentre il sole scompare o appare all’orizzonte e il cielo si tinge di rosa o di giallo oro.
Anch’io ero catturata dal gioco delle sue sfumature, ma ogni tanto mi distraevo: a qualche metro da noi avevo avvistato alcune donne aborigene sedute per terra, accanto a dei teli sui quali esponevano il proprio artigianato. Erano scalze, ma vestivano t-shirt e lunghe gonne fino alle caviglie. Non erano le prime che vedevo: qualche sera prima a Victor Harbor, mentre eravamo fermi in macchina, la mia attenzione è stata attirata dalla manina che dall’altezza di un passeggino mi faceva “ciao”: avevo davanti a me tre generazioni di donne aborigene, ma solo la più giovane di esse mostrava una curiosità, genuina, verso di me. I tratti somatici erano marcati: a Melbourne, Chiara mi aveva detto “quando li incontrerai, li riconoscerai” ed aveva ragione, ma le donne di Uluru, nonostante gli abiti occidentali, a differenza delle prime tre, sembravano davvero arrivare da un’epoca preistorica.
Non fotografarle, non guardarle negli occhi: dovevo ancora assimilare tali istruzioni e questo mi bloccava da qualsiasi avvicinamento.
La legge tradizionale vieta la scalata del monolite e il messaggio di non salire giunge da più direzioni: l’invito è piuttosto quello di camminare attorno alla base e cercare di capire il vero significato del luogo.
Is it a place to conquer or a place to connect with?
si legge su uno dei cartelli.
Da vicino ci si rende conto della ripidità e della pericolosità della scalata, eppure c’è tanta gente che tenta l’impresa e una gran parte di questa rimane attaccata alla corda, a pochi metri dalla vetta, dove la pendenza si fa ancora più ripida, sfiancata e accasciata a terra, che non vuole arrendersi ma che non ce la fa nemmeno a fare un metro in più.
Da queste parti l’umorismo macabro dei moderni australiani si fonde con le credenze degli antichi abitanti: mai sfidare il deserto se non si è preparati e mai sottovalutare la potenza degli spiriti mitologici. Solo pochi alla fine ce la fanno, altri si accontentano di una foto ricordo a metà strada, altri non fanno più rientro a casa.
E proprio questo incaponimento, questo voler a tutti i costi poter raccontare di essere saliti in cima nonostante i pericoli, il rispondere ad una richiesta di rispetto con uno sberleffo, mi ha reso ancora più chiaro quanto possiamo essere nocivi noi per loro, quale esempio malsano possiamo dare del nostro mondo civilizzato.
Ogni fessura, rientranza, protuberanza, fenditura e striatura della superficie di Uluru ha un significato per gli Aborigeni. La macchia d’umidità su un lato è il sangue del popolo del Serpente velenoso, vinto in una battaglia durante il Dreamtime. I fori di un masso sono gli occhi di un nemico morto da tempo; la sporgenza su un altro è il naso di un antenato, ora addormentato.
Uluru non rappresenta solo un luogo da onorare, ma nel passato offriva anche acqua da bere e grotte in cui le famiglie Anungu si rifugiavano dopo giornate di caccia – all’interno delle quali sono ancora visibili le pitture rupestri – e dove si tramandavano di generazione in generazione leggende ed insegnamenti.
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Kata Tjuta
Le Tante Teste per gli Aborigeni, è un complesso di 36 agglomerati rocciosi, distanti 54 km da Uluru, la cui punta più elevata è 200 metri più alta di quest’ultimo.
Visto l’orario del nostro arrivo, ormai prossimo al tramonto, abbiamo dovuto rinunciare all’itinerario più lungo – la Valley of the Winds Walk – di 7 km. In alcuni passaggi il percorso è molto ripido, ma dicono che ne valga decisamente la pena. Questo trail arriva fino al cuore delle cupole, attraverso i letti dei torrenti e i punti panoramici di Karu e Karingana. Per percorrere l’intero circuito escursionistico sono necessarie circa quattro ore. E’ tardi quindi, ma fortunatamente siamo qui nel momento più bello per seguire il percorso che attraversa la Walpa Gorge per 2.6 km, all’interno della gola che si apre maestosa, in cui risuona il sibilo del vento e il sole si diverte in un gioco di chiaroscuri sulle dorsali laterali delle cupole.
Alcuni sostengono che questo luogo sia ancora più affascinante di Uluru ed in effetti le varie cupole affusolate, nelle loro diverse altezze, sono un spettacolo di una bellezza molto particolare.
Probabilmente la durata dell’escursione e la possibilità di capire più profondamente il luogo, mi fanno propendere per Uluru, ma questo è un dettaglio insignificante.
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