Appena fuori da Muscat, l’Oman ci si presenta immediatamente per ciò che è veramente: il Paese ideale per coloro che viaggiano spinti dal desiderio di avventura e la voglia di incontri diretti con le gente del posto, contatti regolati sempre da una gentilezza genuina e da una profonda discrezione.
L’Oman inizia sin da subito, infatti, a scombinare i nostri piani e a metterci sul cammino persone diverse – tutte diverse tra loro – che rappresenteranno un tassello fondamentale della bellezza che mi son portata a casa da questo viaggio.
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Ci eravamo fermati a fare delle foto in un punto in cui le acque di un fiume prendono velocità scendendo lungo uno stretto canyon quando un pickup parcheggia vicino la nostra macchina, lasciando scendere 4-5 bambini, un anziano signore e un uomo sulla quarantina. Quest’ultimo ci si avvicina e mentre ci parla in arabo ci indica la strada a monte e, agitando le braccia, ripete diverse volte “swim, swim”. Stringe la mano a Mister e dopo un welcome accompagnato da un caloroso sorriso ci saluta.
La nostra interpretazione era in dubbio tra “più avanti c’è un wadi dove potete nuotare” e “se proseguite dovrete guadare dei fiumi”, ma la confusione durerà molto poco.
A distanza di qualche centinaio di metri, dopo un guado non molto profondo, ci imbattiamo in un gruppo di studenti tedeschi di geologia fermi ormai da diverso tempo in quel punto. Ci fanno cenno di fermarci e grazie a loro capiamo che l’interpretazione corretta era “se proseguite, dovrete nuotare con tutta la macchina”.
I fiumi, normalmente guadabili, che incrociano la strada montana che da Al-Rustaq passa nei pressi di Misfat-al-Abriyyin, un piccolo villaggio che ogni guida vi consiglierà di visitare, a seguito delle piogge erano esondanti ed avevano reso il percorso impraticabile.
Chiunque arrivava da quella direzione ci raccontava di aver guidato per chilometri nell’acqua e ci sconsigliava vivamente di proseguire.
Gli studenti hanno deciso di accamparsi lì e riprendere il viaggio all’indomani mattina, invitandoci a restare con loro: in quel momento ho desiderato per la prima volta in vita mia di avere una tenda con me per potermi fermare.
Invece, dopo un in bocca al lupo reciproco, ci siamo salutati e siamo tornati indietro: abbiamo raggiunto lo Jebel Shams seguendo la strada per Ibri – come indicato dal prof, ormai esperto dei monti Hajar – l’unica alternativa valida, ma anche un percorso che si rivelerà infinito e ci porterà a destinazione dopo circa 4 ore senza soste, quando ormai il sole era calato da un pezzo e il tutto avvolto nel buio più totale, risparmiandomi così all’andata l’ansia da strada sterrata lungo crepacci e burroni dell’ultimo tratto.
A Misfat ci andremo il giorno dopo, nel pomeriggio, dopo l’ennesimo cambio di programma.
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Sul ciglio della strada che taglia in due il deserto roccioso del plateau dello Jebel Shams, un anziano signore ci fa segno di fermarci agitando il bastone.
“Ma ‘ndo va un vecchietto a piedi da ‘ste parti?” mi chiedo a voce alta.
Abbassiamo il finestrino.
Ci dice qualcosa in arabo.
Ci guardiamo: il nonnino ha una certa tempra se ne va in giro sotto il sole, ma che mai potrebbe farci?
Prima che gli dicessimo ok, era già seduto sul sedile posteriore, tra i nostri zaini.
Lui sapeva già dove eravamo diretti e gesticolando ci dice di svoltare, poi di parcheggiare ed infine di scendere e seguirlo.
Ad essere onesti non ho capito sin da subito che ci trovavamo già all’inizio del Balcony Walk e che quelle 4 casette basse componevano il villaggio di Al-Khateem.
Mi fa segno ticchettando sull’orologio che ci vogliono due ore, mi stringe la mano e lo guardo allontanarsi, aprire la porta della sua minuscola casa mentre un nugolo di capre lo avvolgono belanti e spariscono insieme a lui dietro la porta.
Il Balcony Walk è probabilmente il trekking più famoso di tutto l’Oman ed ha motivo di esserlo.
Non era nei nostri programmi avventurarci molto oltre il punto iniziale, ma la presenza di un villaggio abbandonato è stato un richiamo al quale non siamo riusciti a non prestare ascolto.
Il percorso è scavato lungo il fianco della montagna, ne segue il profilo come un filo sottile tra la roccia ed un passo dal nulla, scomparendo dalla vista dietro le pieghe di ogni scarpata: un viaggio di quasi 4 chilometri – e altrettanti al ritorno – che spinge molti ad abbandonare la missione molto presto, non tanto per la difficoltà del tracciato, ma per la sensazione che non si arrivi mai.
E dopo aver incrociato una coppia di locali che ci ha offerto dei fossili che abbiamo rifiutato, una di francesi che sembrava avere le migliori intenzioni e poi ha rinunciato, ed un ragazzo che correva come il vento e poi è stato invitato dagli amici a tornare indietro, ci siamo ritrovati soli a seguire il tracciato in quello che sembra un grande anfiteatro scavato nella roccia, a quasi 3 chilometri d’altezza, tra il librarsi di un falco e l’acrobazia di una capretta, con la convinzione – la mia – che se qualcuno aveva vissuto fino a trent’anni prima da quelle parti, il tragitto tra il villaggio e il resto del mondo non doveva essere poi così difficile.
Invece, quando si arriva nei pressi di Sap Bani Khamis ci si rende conto che chi vi abitava aveva probabilmente pochi motivi per risalire la strada troppo spesso.
L’acqua ancora oggi trasuda dalla roccia formando una piccola cascatella che si riversa in un bacino, dal quale partiva un impianto di irrigazione che raggiungeva un’ampia zona terrazzata, tuttora in ottimo stato.
Coltivatori quindi, ma anche allevatori di capre ed asini: questo piccolo villaggio era praticamente autosufficiente, come altri nei dintorni, costruito al riparo di un’insenatura nella roccia e dallo scorrere del tempo, sospeso tra cielo e terra, sul bordo del Grand Canyon d’Arabia.
Tips
Per le info complete e le mappe dettagliate scaricabili dei vari percorsi di trekking che si possono seguire sul Jebel Shams e non solo, vi consiglio di consultare il sito del Ministero del Turismo.
Cara Francesca, in me, camminare su questo “balcone” incredibile del mondo ha suscitato sentimenti contrari: picolezza e grandiosità allo stesso tempo. E arrivare in fondo sul laghetto color smeraldo dove si sentivano solamente le gocce d’acqua cadere dalle pietre, mi ha dato l’impressione di aver raggiunto un paradiso terrestre di tranquilità.
Ciao Ami, è proprio quello che ho provato anch’io arrivando fin laggiù. Ho cercato di immaginare come poteva essere vivere lì e tuttora l’idea mi sconvolge: svegliarsi la mattina e guardare uno spettacolo del genere, solo per te e pochi altri; coltivare la terra su uno strapiombo a 3000 metri d’altezza; giocare col rischio di scivolare giù ad ogni passo.
Tutta la potenza e labilità dell’uomo in un incavo nella roccia.