Viaggiare ha mille sfaccettature diverse.
Probabilmente è lo strumento più duttile e poliedrico per raggiungere il soddisfacimento di un bisogno personale, che sia di relax, divertimento, cultura o semplice necessità di connettersi con il mondo.
Viaggiare però non ha un effetto solo sul viaggiatore: il turismo può rappresentare una delle principali voci dell’economia di una Nazione e, nel caso di Paesi emergenti, spesso è la via più veloce per accelerare lo sviluppo e il conseguente miglioramento generale della qualità della vita.
Ma allo stesso tempo, in particolar modo in Paesi dall’equilibrio delicato, in cui si tenta di spingere il più possibile sul pedale dell’acceleratore, il turista può lasciarsi alle spalle degli effetti collaterali devastanti, trasformando quei luoghi che un tempo erano accessibili a pochi privilegiati in un bene di consumo con una data di scadenza.
Se da una parte il turismo di massa ha finalmente aperto le porte del mondo ai più, dall’altra ha fatto in modo che l’impatto negativo della costante presenza di visitatori nei grandi parchi africani o lungo la Grande Barriera Corallina australiana, giusto per citarne un paio, sia un problema reale e venga sollevato sempre più spesso.
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E questo parlarne sempre di più ha innescato un circolo virtuoso tra l’aumento della sensibilità individuale del viaggiatore nei confronti della causa ambientale e del sostentamento delle comunità locali, e le proposte degli operatori, dando vita a nuovi modi di fare turismo, volti sia al contenimento degli impatti negativi sul contesto naturalistico che all’ampliamento degli effetti positivi sulla società e sull’economia del Paese ospitante.
A volte però non è facile capire se le nostre scelte facciano di noi dei viaggiatori responsabili.
Può capitare, infatti, che il confine tra cosa sia giusto e cosa non lo è sia talmente labile da confonderci; o il non esserci informati abbastanza ci fa inconsapevolmente alimentare pratiche poco ortodosse.
O può anche succedere che, sfruttando quella maggiore sensibilità comune di cui parlavo prima per lanciare nuove mode, ci venga venduto un servizio che di eco-friendly ha solo il nome.
E’ una questione delicata, specie quando bisogna districarsi in situazioni in cui un nostro gesto, all’apparenza insignificante, ripetuto da un numero indefinito di soggetti, provoca una reazione a catena di cui difficilmente ci rendiamo conto.
Ora veniamo a me.
Per quanto abbia sempre cercato di stare attenta a non provocare danni durante i miei viaggi, devo ammettere che – un po’ per la voglia di un contatto diretto, un po’ per curiosità ma anche per superficialità – mi è capitato di commettere degli errori grossolani, sottovalutando il disvalore delle mie azioni.
Tipo quella volta che in Thailandia sono salita in groppa ad un elefante, perché se vai in Thailandia un giro sull’elefante lo devi fare, mi disse un’amica che ci era già stata.
Ed io l’ho fatto ed tuttora mi pesa ammetterlo, l’idea mi infastidiva così tanto che – dopo aver compreso ciò che tale pratica comporta – ho buttato la foto ricordo che mi era stata scattata e che tenevo sulla mensola in soggiorno, come a volerne cancellare ogni traccia.
Ma in realtà tale rimorso è sempre nella mia testa.
Devo ammettere anche un’altra cosa.
In seguito soprattutto a quell’esperienza seguo delle regole di base: cerco sempre di informarmi il più possibile prima di decidere se fare o meno un’attività, do la precedenza ai servizi offerti dai locali, mi astengo dal fare l’elemosina e dall’acquisto di prodotti e souvenir fatti con piante a rischio di estinzione o con animali; rifletto sempre su quello che sto per fare ponendomi mille domande quando viaggio sopratutto in Paesi in via di sviluppo, ma per diverso tempo la mia attenzione è calata drasticamente quando mi muovevo in Italia, per esempio.
Come se viaggiare responsabilmente e in modo sostenibile fosse una prerogativa solo di Paesi problematici; un trattamento riservato ai più sfortunati.
Un atteggiamento presuntuoso il mio, proprio quello che mai vorrei assumere quando viaggio.
Perché probabilmente è vero che le condizioni di benessere ci spingono a sottovalutare i riflessi delle nostre azioni, ma bisogna tener sempre presente che determinati equilibri sono delicati ovunque e che gli sprechi prodotti nel nostro Paese incidono anche sul resto del mondo.
E allora mi sono un’imposta delle altre regole, la prima tra tutte è quella di assumere – o quantomeno di provarci – lo stesso atteggiamento responsabile ovunque, come se fossi a casa mia.
La seconda è scegliere accuratamente la sistemazione, sopratutto quando non mi rivolgo a piccole realtà locali, prediligendo quelle strutture che aderiscono a programmi di salvaguardia ambientale, come Stay for the Planet di LifeGate, il quale assegna un rating di sostenibilità in base a diversi criteri, tra cui l’impiego di energie rinnovabili, il contenimento dei consumi, la gestione della raccolta differenziata e l’offerta di menù a km 0.
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Ad oggi sono diverse le realtà – travel e non – che hanno sottoscritto quest’impegno, tra le quali spicca Best Western per il numero maggiore di hotel dalla fogliolina verde, sparsi su tutto il territorio nazionale. Gli hotel del circuito sono stati, infatti, valutati e mappati, fornendo in tal modo al potenziale cliente la possibilità di scegliere la propria sistemazione considerando una variabile in più: l’eco-sostenibilità. Se si è alla ricerca di un hotel a Modena, per esempio, città in cui l’offerta eco-friendly è abbastanza corposa, noteremo che oltre al punteggio sulla qualità del soggiorno espressa dai clienti c’è il rating di sostenibilità assegnato da LifeGate.
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Evitare di stare sotto la doccia più del necessario; spegnere le luci quando si esce; l’uso di una borraccia per l’acqua, lasciando i vuoti di plastica presso l’hotel che si curerà del corretto smaltimento; l’utilizzo ripetuto dello stesso asciugamano; servirsi col cibo che effettivamente si riesce a mangiare sono dei piccoli, banali, accorgimenti che si traducono nel nostro piccolo, ma importante, contributo.
Ma allo stesso tempo, sono esattamente quei comportamenti a cui siamo già abituati, perché probabilmente li assumiamo quando non viaggiamo, quando siamo a casa nostra od ospiti di un amico.
Tornando alla domanda iniziale di questo post, non è la lista dei paesi che abbiamo visitato, il saltare su un aereo una volta al mese, parlare tre lingue o l’essere a proprio agio ovunque a renderci cittadini del mondo, definizione che fa tanto figo ma che perde di significato quando alziamo un confine geografico tra la vita di tutti i giorni e ciò che siamo in viaggio.
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“A man’s feet should be planted in his country,
but his eyes should survey the world.”
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Un uomo dovrebbe affondare le radici nel proprio Paese, ma con gli occhi guardare al resto del mondo: questa citazione di George Santayana esprime esattamente quello che essere cittadini del mondo significa per me.
E per te, cosa significa essere veramente un cittadino del mondo?
Ciao Francesca,
leggo questo articolo e penso che capiti a fagiolo per invitarti a partecipare a #MyTravelRulez.
Ti ho citata fra le tre blogger di cui mi piacerebbe leggere le abitudini e le regole con le quali pianificano un viaggio e poi lo vivono.
So già che mi ritroverò in alcune cose che scriverai (mi capita sempre, ogni volta che pubblichi qualcosa…) e questo articolo ne è la prova.
Se hai voglia e tempo…
Un abbraccio,
Elena
Come hai visto, ho avuto voglia, tempo e piacere 🙂
Molto bene!